6.
Il principe del foro
— Che cosa ne dici? — domandò Annette al fratello, mentre i due fingevano di fare i compiti in camera loro.
— Dico che mi è sembrato interessato.
— Molto interessato. Fin troppo.
— Il figlio della signora Barduchon è un grande. Non è come gli altri adulti... ci sta a sentire... crede alle cose strane che succedono.
— Beh, anche lui è... un tipo strano.
— Intanto ci darà una mano, vedrai.
— Ne sei sicuro?
— Così ha detto. Questa sera, dopo cena.
— Anche questo non ti sembra strano? — insistette la sorella.
— Non più di... —. Fabò si interruppe di colpo. Aveva sentito le chiavi che giravano nella toppa e, subito dopo, sentì il padre esclamare: — Sorpresa! Sono arrivato!
I due ragazzi chiusero di colpo i quaderni e i libri.
— Vediamo di capire se ci sono novità — disse Fabò uscendo dalla camera.
— Occhio a non farlo incavolare, però! — suggerì la sorella. — Altrimenti la mamma capirà che stiamo ancora indagando su questo caso!
Suo fratello le strizzò l’occhio. — Non ti preoccupare. Lascia fare a me —. Poi corse incontro al commissario Gaillard. — Papà! Già di ritorno? Allora, l’hai arrestato oppure no, questo Deloffre?
Intanto, al quarto piano di quello stesso palazzo di vicolo Voltaire era in corso un’accesa discussione. Il grande avvocato Louis Janvier, detto la “colomba bianca” per la sua candida chioma ondeggiante, il più famoso avvocato penalista di Parigi, ormai in pensione, stava parlando con l’unica persona in grado di sconfiggerlo senza appello: sua moglie.
Janvier era in piedi in mezzo al corridoio, le cui pareti erano coperte di targhe, fotografie e vecchi articoli di giornale incorniciati: i riconoscimenti di tutta una carriera.
— Proprio non riesco a seguirti — disse con aria interdetta. Al vecchio Janvier tutta quella discussione sembrava interessante quanto il ronzio di una mosca. Si trattava del licenziamento dell’ennesima donna delle pulizie, colpevole di avere dimenticato di spolverare i ninnoli d’argento della zia Amélie. — Non puoi dirle di spolverarli la prossima volta che viene? — propose.
Dalla cucina, nella quale la moglie viveva rintanata, provenne una pioggia di spiegazioni più o meno già sentite.
— Non è affidabile... Non ha idea del pericolo della polvere... L’argenteria perde brillantezza, che diamine... Che figura facciamo con gli ospiti...
A quel punto, l’avvocato Janvier aveva già affondato il naso in un romanzo giallo, appena sfilato da uno scaffale.
— Hai sentito che cosa ti ho detto? — gli domandò la moglie a bruciapelo, quando lui meno se l’aspettava.
L’ex migliore avvocato di Parigi posò di scatto il romanzetto poliziesco e la guardò come un bambino sorpreso con le mani nella marmellata.
— Naturalmente, cara. Se le cose stanno così... dobbiamo... mandarla via.
— Lo credi davvero o lo dici soltanto per farmi stare zitta? — lo rimbeccò la moglie.
Janvier sollevò il sopracciglio destro, la famosa espressione che in tribunale faceva rabbrividire i suoi avversari, perché indicava che la colomba bianca stava per pronunciare una delle sue frasi memorabili e decisive.
«Tanto non starai mai zitta» pensò Janvier. — Ne sono sicuro — disse invece alla moglie.
— E allora il problema è trovarne un’altra. E trovarla entro domani.
— Immagino.
— Forse la mia amica Adeline ha l’indirizzo della persona che fa per noi.
— Non sarebbe male se per una volta trovassimo una collaboratrice domestica che resista più di una settimana — borbottò Janvier tornando a fissare il libro giallo appena posato.
— Come hai detto, caro?
— Non ho detto niente.
— Devi aiutarmi a trovare qualcuno.
— Ti aiuterò — rispose il marito in modo automatico mentre si faceva scivolare il libro nella tasca della giacca.
Incrociò con un sorriso lo sguardo della moglie che si era già attaccata al telefono in cerca di una nuova domestica. Passando davanti all’ingresso, prima di svoltare in salotto, si fermò. Aveva sentito un inconfondibile, delizioso profumo che filtrava da sotto la porta.
— Ah, questa è la signora Barduchon... — mormorò, dando un colpetto al suo raffinato naso da gourmet. — Forse più tardi ci scappa una partitina...
Fregandosi le mani, si assicurò che sua moglie fosse al telefono, quindi controllò che il mazzo di carte fosse al suo posto, nella tasca interna del cappotto appeso all’ingresso. C’era.
Rassicurato e speranzoso, Janvier si diresse in salotto, dove sprofondò nella lettura del suo libro.
Più tardi, il grande avvocato sentì bussare alla porta. Un colpetto. Due colpetti. Un colpetto. Il segnale in codice che annunciava una delle solite partitelle di bridge.
— La porta! — gridò sua moglie dalla cucina.
— Vado io! — rispose prontamente Janvier. Depose gli occhiali e indossò il cappotto.
«Che sollievo!» pensò mentre spalancava la porta. Da quando era in pensione, costretto a vivere tutto il giorno con sua moglie, le giornate gli sembravano interminabili e noiosissime. Se solo fosse potuto tornare ai suoi criminali e al suo amato tribunale!
Fuori dalla porta trovò una sorpresa: sullo zerbino c’era un piattino da dessert con sopra una sottile fetta di torta e una busta.
Janvier piegò la schiena irrigidita dall’età (e dalle estati passate in mare a fare vela) ed esaminò la torta: era una millefoglie alla vaniglia della signora Barduchon, non c’erano dubbi in proposito. Ma non era una delle sue solite porzioni.
E nella busta, poi, c’era un biglietto ancora più insolito.
Se vuole anche lei la sua fetta di gloria, non manchi all’inaugurazione del Club dei sette detective. Quest’oggi, subito dopo cena, alle ore 21. Presso la cantina n. 12, comunemente conosciuta come “la cantina Barduchon”.
Si consiglia di entrare dalla porticina sul retro.
Bussare alla parete rossa, secondo il codice.
— Io vado — disse l’avvocato Janvier con una certa trepidazione quando scoccarono le nove meno cinque minuti.
— Dove vai? — gli domandò la moglie.
La luce che proveniva dallo schermo televisivo inondava il salotto di una luce azzurrognola e intermittente.
— Scendo a portare fuori il cane.
Lei lo guardò con occhi vacui. — Non ce l’abbiamo, il cane.
— Dovremmo comprarcene uno.
— Non ci pensare nemmeno, Louis.
— Invece ci penso. Ci terrebbe compagnia e magari potresti uscire qualche volta anche tu per fargli fare un giretto, invece di stare tutto il giorno seduta davanti al televisore.
— Avevi detto che il film piaceva anche a te.
Janvier, ormai, si era alzato e aveva raggiunto la porta del salotto. — È vero, ma mi interessa meno che avere un cane.
— Dove vai? — ripeté la moglie.
Il vecchio avvocato prese il cappotto, lo indossò con la grazia impeccabile con cui ai bei tempi indossava la sua toga e impugnò il pomello d’ottone dell’uscio.
— Vado ad allenarmi per quando avremo un cane.
— Louis... Come te lo devo dire che noi non avremo mai un...
Clack, fece la porta del quarto piano richiudendosi dolcemente.
Mentre scendeva le scale due gradini per volta, come aveva sempre fatto fin da quando aveva imparato a camminare, Janvier respirò a pieni polmoni. E più gradini metteva tra sé e il suo appartamento da riccone in gabbia, più aveva la sensazione di sentirsi vispo e pimpante.
Quando raggiunse il piano terra e inalò una boccata del cattivo odore che arrivava dalla strada (lo sciopero dei netturbini era ormai al quarto giorno), fu come se avesse appena assaporato l’essenza stessa della libertà.
Il misterioso biglietto del tardo pomeriggio apparve tra le sue dita. La porticina sul retro a cui alludeva doveva essere quella in cortile.
Così Janvier entrò nel cortile interno sollevando gli occhi per osservare le quattro file di finestre e la mansarda.
Dal primo piano, il cosiddetto “piano nobile”, quello più prestigioso, non arrivavano né suoni né luci da ormai oltre trent’anni. Janvier non si ricordava nemmeno più a chi appartenesse quel piano: a un nobile straniero? A un gruppo di industriali americani? A un torero spagnolo? Chissà. Chiunque fossero i proprietari, pagavano regolarmente le spese del condominio, anche se non si erano mai presentati a una riunione.
Al secondo piano c’erano i Barduchon, madre e figlio. I suoi compagni di bridge, insieme a Victor Cormolles, postino dalla mente scattante e dalla memoria infallibile, che invece stava al terzo, lo stesso dei Gaillard. La proprietaria della casa di Victor era la dirimpettaia dei Barduchon e aveva un debole per la lirica, che ascoltava spesso a tutto volume. Nonostante il giovane Barduchon, in qualità di amministratore del palazzo, avesse più volte tentato di costringerla a regolare l’impianto a un volume più accettabile, ogni quindici giorni le più famose arie di Puccini risuonavano in tutto vicolo Voltaire.
Nel condominio c’erano poi un altro paio di appartamenti, abitati da persone distinte e riservate, e un sottotetto mansardato, con tanto di abbaini rotondi da cui si vedeva la Senna, in cui viveva l’artista del palazzo: Lalou, il ragazzo del Mali, insieme alla madre.
Janvier attraversò il cortile ad ampie falcate e raggiunse la porticina che si trovava dall’altra parte, nascosta in mezzo all’edera.
«Trent’anni che vivo qui e non ho mai aperto questa porta...» disse tra sé e sé.
Ora il momento era finalmente arrivato. Quando lo sfiorò, l’uscio si aprì da solo, cigolando leggermente.
Al di là, Janvier vide una scala stretta, tenuemente illuminata, che scendeva verso il basso.
— Parbleu! — disse facendo ricorso alla sua più tipica esclamazione.
Scese le scale tenendosi alla ringhiera traballante e si ritrovò nella più classica delle cantine: penombra, file di porte chiuse e odore di umidità. Sentì alcune voci in lontananza e proseguì in quella direzione.
Il corridoio sotterraneo ne intersecò un secondo. Janvier guardò i numeri scoloriti sulle porte. Le voci che aveva sentito provenivano dalla sua sinistra.
— Cantine 9-15 — lesse ad alta voce inforcando gli occhiali.
La porta della cantina numero 12, quella dei Barduchon, era aperta.
E al suo interno c’erano i fratelli Gaillard che confabulavano tra loro.
— Avvocato Janvier! — trasalì la ragazza quando lo vide apparire sulla porta. — Mamma mia, che spavento!
— Che cosa ci fate, voi due, qui?
— Saperlo... — rispose Fabò.
— Abbiamo appuntamento con il figlio della signora Barduchon... — spiegò la sorella.
— Ah.
— E non ci aspettavamo di incontrare lei... — terminò la ragazzina.
— Potrei dire la stessa cosa di voi — ribatté l’avvocato. Palpò nella tasca il bigliettino misterioso. — Forse avete avuto anche voi... una fetta di torta?
— Fabò lo guardò sorpreso. — Come dice, scusi?
— Fate finta che non abbia parlato. Cominciamo dall’inizio.
— Siamo in una cantina — ricapitolò Fabò in tono secco. — E non c’è traccia del figlio della signora Barduchon.
— Già — ammise l’avvocato. — Ma, a quanto pare, lui ha dato appuntamento a tutti e tre. Qui... a quest’ora.
— Io lo dicevo che era una cosa strana. Ma mio fratello era convinto che fosse del tutto normale — brontolò Annette.
— Una cantina è un buon posto dove parlare — spiegò Fabò.
— Senza dubbio, tuttavia... — fece l’avvocato, controllando l’orologio. Le nove in punto. — Forse basta aspettare cinque minuti...
— A noi ha dato appuntamento a un quarto alle nove.
— A me alle nove.
— Quindi forse noi e lei non dovevamo... incontrarci?
— Non le sembra che tutta questa faccenda sia un po’ troppo... enigmatica?
L’avvocato ridacchiò. Gli erano sempre piaciuti quei due ragazzini. Svegli, senza peli sulla lingua e con un vocabolario più ricco di quello degli altri adolescenti. Si vedeva lontano un miglio che erano ottimi lettori.
— Forse il signor Barduchon ci ha fatto venire qui per una specie di... gioco? — azzardò Annette.
— La parete rossa! — esclamò a quel punto Janvier, facendoli trasalire. Indicò una delle tre pareti della cantina dei Barduchon, che era stata dipinta di rosso. La cantina era molto ordinata e piuttosto spoglia: ospitava alcune vecchie biciclette appoggiate su un lato, scatoloni di elettrodomestici, la testiera di un letto e, sugli scaffali, una serie di barattoli di conserve di vari colori e dimensioni.
Proprio la parete delle conserve era interamente dipinta di rosso. Janvier la raggiunse con due falcate e, come folgorato da un’intuizione, accostò l’orecchio al muro, per ascoltare.
— Sente qualcosa, signor Janvier? — gli domandò Fabò, premuroso e divertito al tempo stesso.
— Assolutamente niente — ammise a malincuore l’avvocato, picchiettando poi sul muro con le nocche. Tack-tack. Tack-tack. — Se devo essere sincero, non ho mai capito come si faccia a sentire... — tack-tack — ...qualcosa bussando sui muri, come nei libri e alla television...
Tack-tok fece a quel punto la sua nocca, quando colpì una superficie diversa dal resto della parete.
Un sopracciglio del vecchio avvocato si sollevò. — Avete sentito anche voi?
— Altroché, signor Janvier — rispose Fabò. — Lì suona come se fosse vuoto.
Janvier trattenne una risata euforica.
Stava succedendo davvero? Era davvero sceso nella cantina del suo palazzo per trovare una parete finta e...
— Bisogna bussare con il codice, adesso — mormorò ricordandosi le istruzioni del biglietto misterioso.
— Con quale codice?
— L’alfabeto Morse?
Janvier, la colomba bianca del foro, scosse il capo. — Credo che sia sufficiente il codice con cui ci chiamiamo alla porta, prima delle nostre partite a bridge.
— Temo di non seguirla, signor Janvier — disse perplesso Fabò.
— Chiamami Louis, ragazzino — sussurrò l’avvocato battendo lentamente un colpetto, due colpetti, un colpetto.
La luce della cantina si spense di colpo.
Si udirono prima un secco clac! e poi un cigolio di cardini. Il vano illuminato di una porta si delineò sulla parete della cantina.
— Parbleu! — esclamò l’avvocato.
— Non so se questa cosa mi piace, ragazzi — sussurrò Annette.
Fabò, senza quasi accorgersene, si aggrappò allo scaffale delle conserve.
Al di là della porta c’era una scala a chiocciola che saliva.